La missione dei Protomartiri
Dalla Porziuncola, presso Assisi, furono inviati nella Penisola iberica e in Marocco sei frati; quando passarono i Pirenei e giunsero in Aragona, frate Vitale si ammalò gravemente. In questi casi l’indicazione data da frate Francesco per coloro che volevano vivere come fratelli era precisa: «Se qualcuno dei frati cadrà ammalato, ovunque si trovi, gli altri frati non lo lascino senza avere prima incaricato un frate, o più di uno se sarà necessario, che lo servano come vorrebbero essere serviti essi stessi» . Visto che la guarigione tardava a venire, lo stesso frate Vitale disse agli altri cinque di proseguire il cammino onde non ritardare la predicazione; gli obiettarono che non potevano lasciarlo solo in terra straniera, ma egli riaffermò la sua posizione. Al che i frati Berardo, Pietro, Ottone, Adiuto e Accursio ripresero il cammino.
Non sappiamo l’età esatta di essi ma non dovevano distanziarsi troppo da quanto nel 1220 scrive Boncompagno da Signa, attento osservatore: «I frati minori possono essere a buon diritto annoverati tra i discepoli del Signore, poiché essi, disprezzando i desideri mondani, sottopongono la loro carne a macerazioni e tormenti, e seguono Cristo a piedi nudi e vestiti di cilicio». E ancora: «I frati minori in parte sono giovani e fanciulli. Perciò non è contro natura se, nella fragilità della loro età, risultano incostanti e deboli; ma essi sono già arrivati all’estremo della pazzia, perché vanno vagando senza discrezione per le città, i paesi e i luoghi solitari, sopportando orribili e disumani tormenti» . Similmente scrive sempre nel 1220 Giacomo da Vitry: «Questa Religione sta diffondendosi grandemente nel mondo intero. Il motivo è questo: che essi imitano espressamente la forma di vita della Chiesa primitiva e la vita degli apostoli. Tuttavia questa Religione ci sembra molto pericolosa, perché vengono sparpagliati a due a due per tutto il mondo, non solo i perfetti, ma anche i giovani e gli imperfetti, che avrebbero dovuto essere domati e provati per qualche tempo sotto la disciplina conventuale» .
Da queste notizie possiamo desumere non solo la giovane età dei frati incamminati per il Marocco ma pure che non vissero quell’anno della prova che sarà reso obbligatorio proprio nel 1220 da papa Onorio III con la bolla Cum secundum consilium: «Secondo il consiglio del Sapiente, non si deve fare nulla senza riflessione, affinché´ non avvenga che poi ci si debba pentire. È quindi opportuno, per chiunque intenda attuare un proposito di vita più perfetta, che i suoi occhi precedano i suoi passi, che cioè misuri le proprie forze con il criterio della prudenza, perché non capiti, Dio non voglia, che volendo cose più alte di lui, il suo passo divenga vacillante e si volti indietro, destinato ad essere tramutato in statua di sale insipido, perché non attese a condire il sacrificio di sé, che voleva offrire a Dio, con il sale della sapienza. Come infatti il sapiente diventa insipido se non ha fervore, cosı` chi e` fervente si copre di confusione se non ha sapore. Per questa ragione, quasi in tutte le forme di vita religiosa e` prudentemente stabilito che quanti intendono abbracciare le osservanze regolari, le esperimentino prima per qualche tempo e siano provati in esse, perché non ci sia poi motivo di pentimento, che non si potrebbe scusare dalla taccia di leggerezza. Perciò, con l’autorità della presente lettera vi proibiamo di ammettere qualcuno alla professione del vostro Ordine, se non avrà fatto prima l’anno di prova. E una volta fatta la professione, nessun frate osi lasciare il vostro Ordine e a nessuno sia lecito accettare colui che ha lasciato l’Ordine. Vietiamo inoltre che alcuno di voi possa andare in giro fuori dell’obbedienza con l’abito della vostra Religione e corrompere la purezza della vostra povertà. Se alcuno poi presumerà di farlo, sia lecito a voi infliggere contro tali frati le censure ecclesiastiche fino a quando si sia ravveduto» .
Nel loro entusiasmo di diffondere la bella notizia penetrarono nella Penisola iberica, una terra di vero e proprio meticciato vista la contemporanea presenza di arabi e latini, cristiani e mussulmani. Espressione di tale situazione è che un edificio costruito quale chiesa diveniva moschea nel momento che era occupata dagli islamici per ritornare luogo di culto cristiano nel momento della riconquista. Così a Cordova sull’antica chiesa visigotica di San Vincenzo fu costruita una grande moschea che poi divenne l’attuale cattedrale dell’Immacolata concezione di Maria. Persino vi sarà il caso di un mussulmano che convertitosi al cristianesimo entrò nei frati Minori; ritornato alla fede islamica continuava ad essere denominato frate!
I frati giunti da Assisi, dopo una sosta ad Alanquer, furono accolti in Portogallo da Sancia, la sorella del re. Diversi ad ascoltare il loro proposito di andare in Marocco furono contemporaneamente affascinati dal loro coraggio ma anche impauriti dal timore che potessero rompere un equilibrio nei rapporti tra culture ed etnie sempre precario. A nulla valsero le esortazioni alla prudenza e così andarono a Siviglia e qui, «un giorno, infiammati dallo Spirito Santo, uscirono di casa, e senz’altra guida andarono fino alla principale moschea dove, senza alcun timore e disprezzando qualsiasi tribolazione di questo mondo, si fecero vedere in abito di monaci cristiani, facendo andare su tutte le furie i Saraceni» . Il re allora «comandò che i frati venissero rinchiusi sulla cima di una grande torre. Ed essi, accesi dal fuoco dello Spirito Santo, predicavano a gran voce, dalla sommità della torre a quanti entravano ed uscivano dal palazzo reale la fede di Cristo» . Vista la loro insistenza il re per sbarazzarsene li inviò in Marocco dove l’infante Pedro, esule dal Portogallo per contrasti dinastici con il fratello, il re Alfonso II, cercò di ricondurli nelle terre cristiane. Ma i frati riuscirono a svincolarsi dalla sua custodia e anche qui, «dovunque vedevano Saraceni adunati o per il mercato o per altro, si avvicinavano ad essi, e con grande audacia predicavano la legge di Dio» .
Pure i regnanti del Marocco furono infastiditi dalla loro predicazione; in un primo momento li fecero incarcerare e successivamente furono convocati presso il califfo Abū ya'qūb yūsuf alMustanṣir, cioè il re Miramolino della legenda. Qui «il principe, rivolgendosi a loro, disse: “Di dove siete?”. “Siamo cristiani […] Noi siamo venuti qui”, disse frate Ottone, “con la licenza del nostro superiore frate Francesco, il quale, per la salvezza degli uomini, sta pure andando per altre parti del mondo; e siamo venuti per predicare a voi infedeli – che per amore di Dio amiamo anche se siete nostri nemici – la fede è la via della verità» . Ecco il ripetersi del la scena dell’interrogatorio di Pilato a Gesù: «Allora il principe Aba Said gli disse: “Qual è la via della verità?”. Rispose frate Ottone: “Questa è la via della verità, che crediate che Dio, Padre, e Spirito Santo, e nel Figliuolo incarnato e crocifisso per la salvezza di tutti. E quelli che non credono questo, saranno tormentati irrimedialmente nel fuoco eterno”» .
L’entusiasmo e la passionalità con cui i frati controbattevano contribuì a che il confronto degenerasse in uno scontro; allora «il re allora, come invaso da furore, si rivolse ad essi: “La mia potestà e la mia spada vi purgherà bene da tutte queste pazzie!”. E i santi, con calma: “I nostri corpi e la nostra misera carne sono in tuo potere, ma le nostre anime sono solo nelle mani di Dio”. Allora il re, acceso maggiormente d’ira, ordinò che gli portassero la spada, e presala con le sue proprie mani, separati i santi frati l’uno dall’altro, spaccò loro la testa proprio nel mezzo della fronte, e colpì con tanta forza che ruppe tre spade. E così con crudeltà disumana li uccise di mano propria» .
L’andata dei frati Minori nei vari paesi fuori dall’Italia mediana, come ricordato sopra finì in modo increscioso e fu un vero e proprio fallimento; ma per i cinque frati che andarono in Marocco la testimonianza raggiunse l’apice venendo uccisi. I cristiani presenti videro quel sangue scorrere su quella terra d’infedeli ma con occhio penetrante videro anche l’entusiasmo giovanile, la passione per il Vangelo e l’affezione a Gesù di quei cinque testimoni e di conseguenza credettero che furono dei veri e propri martiri come quelli dei primi secoli cristiani e che con tanta solennità erano venerati nelle maestose cattedrali e basiliche. Di conseguenza essi «trattarono le reliquie dei santi Martiri, separarono la carne dalle ossa, e le disseccarono al sole» .
L’insuccesso fu totale ma in realtà era l’inizio di una grande avventura. Infatti i loro resti mortali furono condotti a Coimbra dove un canonico agostiniano, Fernando da Lisbona, considerando la loro testimonianza e animato da una radicalità evangelica-martiriale volle anche lui diventare frate minore assumendo il nome di Antonio, ossia del Santo egiziano, padre del monachesimo, a cui era dedicata la piccola cappella posta in mezzo agli ulivi appena fuori la città. Così narrerà un decennio successivo l’autore della vita di sant’Antonio: «Quando l’infante don Pedro trasportò dal Marocco le reliquie dei santi martiri francescani, fece sapere per tutte le province della Spagna com’era stato liberato in modo prodigioso per loro intercessione. Udendo il servo di Dio i miracoli che si compivano per i meriti dei martiri, sorretto dal vigore dello Spirito Santo e stringendo i fianchi con la cintura della fede, irrobustiva il braccio con l’armatura dello zelo divino. E diceva in cuor suo: “Oh, se l’Altissimo volesse far partecipe anche me della corona dei suoi santi martiri! Se la scimitarra del carnefice colpisse anche me, mentre in ginocchio offro il collo per il nome di Gesù! Avrò la grazia di veder questo? potrò godere un giorno così felice?”. Questi e simili detti ripeteva tra sé tacitamente» . Ben presto tali aspirazioni potettero realizzarsi; infatti «Non lontano dalla città di Coimbra, in un luogo chiamato Sant’Antonio, abitavano alcuni frati Minori, i quali sebbene illetterati, insegnavano con le azioni la sostanza delle Scritture divine. Essi, secondo le norme del loro istituto, venivano molto spesso a chieder l’elemosina al monastero dove viveva l’uomo di Dio. E un giorno essendosi Fernando appartato, secondo il solito, per salutarli, conversando, disse tra l’altro: “Fratelli carissimi, con vivo desiderio vorrei indossare il saio del vostro ordine, purché mi promettiate di mandarmi, appena sarò tra voi, alla terra dei Saraceni, nella speranza di esser messo a parte anch’io della corona insieme con i santi martiri”. I frati, pieni di gioia nell’udire le proposte di un uomo così insigne, fissarono l’indomani per recargli il saio, troncando ogni indugio fomentatore di pericoli. Mentre i frati se ne tornavano lieti al convento, il servo di Dio rimase, dovendo chiedere all’abate la licenza per quanto aveva stabilito. La strappò a fatica, a forza di suppliche. Di buon mattino, memori della promessa, i frati giungono e, secondo il convenuto, vestono in fretta nel monastero il servo di Dio con l’abito francescano» .
Frate Antonio volendo seguire le orme di Gesù come i frati Berardo, Ottone, Adiuto, Accursio e Pietro si imbarcò per il Marocco ma a motivo di un naufragio si ritrovò sulle coste della Sicilia. Da lì risalì la Penisola italiana per raggiungere Assisi dove i frati si apprestavano a celebrare il capitolo. La tradizione vuole che sia passato anche dallo Speco di Sant’Urbano nella Conca di Terni; certamente attraversò quelle terre che diedero i natali ai cinque frati martiri in Marocco, ossia Calvi, Stroncone, Aguzzo, Narni e San Gemini.
Al termine del lungo cammino giunse alla Porziuncola dove i frati erano riuniti in capitolo. Al termine di tale incontro i frati – come avvenne pochi anni prima per quelli inviati nella Penisola iberica e da lì in Marocco – partirono ma questa volta con tanto di lettere papali che attestavano la loro cattolicità, concedevano privilegi ed esortava i vescovi e non solo ad accoglierli benevolmente. Frate Antonio da Lisbona fu inviato nel Nord Italia dove, dopo un periodo di vita eremitica, si dedicò alla predicazione cosa che fece fino a quando morì a Padova il 13 giugno 1231.
A meno di un anno di distanza, nella Pentecoste del 1232 papa Gregorio IX nel Duomo di Spoleto lo canonizzò, ossia riconobbe canonicamente. Tutto ciò comportava la necessità di scrivere la vita di sant’Antonio di Padova; la Vita del beato Antonio, detta anche Legenda Assidua, narra anche il suo passaggio dai Canonici agostiniani ai frati Minori: «Udendo il servo di Dio i miracoli che si compivano per i meriti dei martiri, sorretto dal vigore dello Spirito Santo e stringendo i fianchi con la cintura della fede, irrobustiva il braccio con l’armatura dello zelo divino. E diceva in cuor suo: “Oh, se l’Altissimo volesse far partecipe anche me della corona dei suoi santi martiri! Se la scimitarra del carnefice colpisse anche me, mentre in ginocchio offro il collo per il nome di Gesù!». In questo modo narrando e celebrando la vita di sant’Antonio si diffuse anche quella dei Protomartiri francescani e questo fu uno dei modi con cui ne venne a conoscenza anche Chiara d’Assisi tanto da suscitare in lei il desiderio «de andare alle parte de Marrocchio, dove se diceva che erano menati li frati al martirio», come afferma il Processo di canonizzazione .
Quasi facendogli eco «a frate Egidio pareva che non avessero fatto bene i frati prelati dell’ordine dei frati Minori a non adoperarsi con ogni sforzo davanti al papa per la canonizzazione dei frati Minori martiri, uccisi nel Marocco a causa della fede gloriosamente professata. Questo, diceva, i frati dovevano procurare non in vista della propria gloria, ma soltanto per l’amore di Dio e l’edificazione del prossimo. Se il papa avesse voluto porli solennemente tra i santi, sarebbe stata buona cosa, e se no, i frati sarebbero stati ugualmente scusati presso dio per essersi a ciò adoperati. E aggiungeva: “Se noi non avessimo avuto gli esempi dei fratelli venuti prima di noi, forse non saremmo nello stato penitenti in cui siamo […]”» .
In questo modo la venerazione per i cinque frati martirizzati in Marocco si accrebbe sempre più tanto che Sisto IV, papa francescano, nel 1481 li canonizzò.